Marion ha appena compiuto cinquant’anni e si ritiene una donna felice. Un giorno, mentre sta cercando di scrivere il suo nuovo libro, ascolta per caso una seduta psicanalitica che si svolge nella stanza di fianco. Le parole della paziente la mandano in crisi, rimettendo in discussione tutte le certezze di cui si credeva sicura.
Uno dei film più brevi di Woody Allen, sicuramente uno dei suoi film catalogati come “minori”, è in realtà una gemma di grande luminosità e portentosa profondità. L’evidentissima influenza bergmaniana (è questo il film che segna l’inizio della collaborazione tra Allen e il grande Sven Nykvist, il direttore della fotografia prediletto dal regista svedese) si abbina a dialoghi impeccabili, lievi e penetranti, mai pedanti o troppo letterari. Uno dei punti più alti dell’Allen sceneggiatore, anche se l’impalcatura forzatamente teatrale lo rende un po’ statico e simile a un dramma da camera. La quiete e la serenità generale vanno di pari passo con la freddezza e il rigore morale con cui il film si impone di scavare all’interno della sua protagonista, somigliando ad un’allegorica seduta terapeutica in cui ognuno può riconoscersi e ritrovarsi. Ancora una volta, Woody non sbaglia un casting: Gena Rowlands è magnifica e ci si può quasi divertire, come davanti ai quadri di un museo, a cogliere tutte le piccole differenze che intercorrono tra un primo piano e l’altro, uno strumento di cui il regista abbonda con grande generosità. In due scene il personaggio di Gene Hackman (al suo unico film di Allen) lascia un segno molto più netto di tanti presunti amanti travolgenti della storia del cinema.

Voto: 7,5