Category: Western


tre-sepolture

Un poliziotto uccide per caso un clandestino alla frontiera tra Texas e Messico; intenzionato a rendere giustizia all’amico, il vecchio Pete rapisce il poliziotto obbligandolo a un’allucinante espiazione.
Davvero brillante l’esordio alla regia di Tommy Lee Jones, che a 59 anni sfodera la stessa personalità sempre messa in mostra davanti alla cinepresa. La strada del western contemporaneo, battuta negli ultimi anni con rinnovato successo, è ampiamente nelle corde dell’attore-regista texano, a suo agio con i passi dolenti e i silenzi imposti dal genere, come già dimostrato nell’affine capolavoro dei Coen “Non è un paese per vecchi”. Le cadenze da requiem imposte dalla regia, ispirata al nume tutelare Eastwood, contano più della sussiegosa sceneggiatura del messicano Guillermo Arriaga (lo scrittore prediletto da Inarritu, e non è un caso); Jones tenta con discreto successo di intavolare discorsi universali sull’etica e sul dovere morale, che vanno oltre il caso specifico (per il quale, si sa, è pur sempre prevista una Legge) e, drammaticamente fuori tempo, diventano lo spunto per un bizzarro e affascinante racconto di formazione al contrario, in cui è stavolta l’anziano ad andare incontro e far visita ai fantasmi (vedi l’incontro col cieco). Il giovane e stupido Mike Norton è solo uno strumento dal quale non ci si aspetta alcuna redensione che naturalmente non arriverà. Oltre a rivelarsi un signor regista, Tommy Lee Jones brilla anche da attore (con tanto di premio a Cannes) in un cast in cui si fa notare la bionda January Jones, non ancora famosa prima di diventare la Betty Draper del formidabile “Mad Men”.

Voto: 7



Far West: in un villaggio di minatori arriva John McCabe, spregiudicato imprenditore deciso a mettere su una casa di tolleranza. Gli dà una mano – in maniera non del tutto disinteressata – Constance Miller, ex prostituta che esercita su di lui una forte influenza.
Negli anni ’70 Robert Altman porta a compimento la sua opera di destrutturazione dei generi, operazione che interessa per esempio il noir (“Il lungo addio”), la fantascienza (“Quintet”) e persino, con esiti contraddittori, il fantasy di cassetta (“Popeye”). Non può perciò mancare il genere classico per eccellenza, il western, qui rivoltato da cima a fondo con una punta di esibizionismo e compiacimento, visto com’è programmaticamente animato da situazioni e personaggi bizzarri: una colonia di cinesi, un’ambientazione piovosa e invernale (fu girato a Vancouver nei mesi più freddi dell’anno), pretese di realismo e verosimiglianza che fanno a cazzotti con alcuni aspetti tecnici del film, prima su tutti una neve smaccatamente posticcia. Parabola tragica spiccatamente altmaniana, senza eroi, pieno di mezze figure e mezzi toni; apologia ante-litteram del capitalismo e dei suoi guasti, filtrata dal proverbiale pessimismo del regista di Kansas City. Warren Beatty spesso oscurato da una grande Julie Christie, che giunse fino alla nomination all’Oscar con un personaggio che, a conti fatti, è una delle donne più decise e risolute di tutta la storia del western. Musiche dolenti di Leonard Cohen che addolciscono un film aspro, spigoloso, difficile da digerire, forse un po’ datato.

Voto: 6,5



Nel selvaggio West Bret Maverick si guadagna da vivere tra truffe e partite a poker e ora ha in testa di racimolare i 25 mila dollari necessari a partecipare a un torneo dal primo premio di 500 mila verdoni.
Dopo i tre fortunati capitoli della saga di “Arma letale”, nel 1994 Mel Gibson e il regista Richard Donner si concedono quest’escursione western in cui viene sostanzialmente riproposto lo stesso canovaccio dell’eroe dalla battuta pronta e il grilletto velocissimo. Tutto è prevedibile e molto è gradevole in questa commedia di intrighi, doppi giochi e false piste sul modello della Stangata, tratta da un telefilm anni ’60 di successo in cui il protagonista James Garner è qui il papà di Mel Gibson. Donner dirige con verve e mano ferma e si concede una divertente auto-citazione facendo comparire Danny Glover (ma non svelandolo) in mezzo a una rapina in banca. Cast di supporto niente male con Jodie Foster raramente così frizzante e i due villain Alfred Molina e James Coburn piuttosto divertiti dalla situazione. Prima di perdere la brocca, tutto sommato Mel Gibson era un simpaticone.

Voto: 6+

Una baldanzosa 14enne si mette alla caccia dell’assassino di suo padre, scampato alla legge e per nulla braccato dall’autorità. Per acciuffarlo assolda a un vecchio e burbero sceriffo appassionato di whisky.Secondo remake dichiarato dei fratelli Joel e Ethan Coen dopo il poco riuscito “Ladykillers” (2004). L’oggetto del ripescaggio è qui “True Grit” (1969), maldestramente tradotto in “Il grinta” ai tempi, non indimenticabile western che fruttò l’unico Oscar in carriera a John Wayne. Il risultato è in linea con le attese e segna una nuova tacca nel carniere dei Coen “commerciali”, interessati al soldo e non al risultato, per potersi mantenere i veri divertimenti della loro professione. Non è in discussione la perizia registica dei fratelli, nè il continuo gioco di rimandi e citazioni che manderà in sollucchero qualsiasi cinefilo, ma dov’è il senso di quest’operazione di recupero fuori tempo massimo di un genere dichiaratamente morto e sepolto (alle esequie avevano partecipato, forse inconsapevolmente, gli stessi Coen in “Non è un paese per vecchi”)? Tutto è irrimediabilmente di maniera, dalla recitazione di Jeff Bridges ai classici upgrade coeniani nei dialoghi e nel tratteggio dei personaggi. Agli atti rimane una bella avventura, una storia a tratti avvincente, uno sprazzo di cinema ormai passato, ma senza molta convinzione in ciò a cui si sta assistendo. Pure, sono piovute le nominations (ma senza Oscar) e gli attestati di stima della critica, molto simili a un atto dovuto. Sarà che gli ultimi abbaglianti Coen hanno superato una soglia oltre la quale è impossibile tornare, ma dei remake a strettissimo uso e consumo non sappiamo granché che farcene. Hailee Seinfeld rivaluta il personaggio femminile (decisamente in secondo piano nell’originale, dove spadroneggiava incontrastato John Wayne) e passa la vernice della modernità sulla polverosa impalcatura originale: un po’ pochino. Può scapparci la lacrimuccia nel finale, quando risuonano le sempiterne note di “Leaning on the Everlasting Arms”,, la canzone che cantava il malvagio Robert Mitchum a cavallo ne “La morte corre sul fiume”.

Voto: 6


Sullo sfondo della guerra di secessione americana, tre fuorilegge dal grilletto velocissimo sono sulle tracce di un tesoro di 200 mila dollari sepolto da un soldato confederato accanto a una tomba nel cimitero di Sad Hill. Tutti e tre sanno qualcosa ma non abbastanza per sbrigarsela da soli, e sono costretti loro malgrado a collaborare a vicenda.
Capitolo conclusivo e punto più alto della leoniana “trilogia del dollaro”: scandito dall’insistente motivo del numero 3 (tre i personaggi, tre le volte che Tuco viene appeso alla forca e tre le volte che il Biondo gli salva la vita sparando alla corda) e attraversato dalla Storia per la prima volta in Leone. I luoghi comuni del western tradizionale vengono qui ulteriormente ridicolizzati fino a svuotarli di ogni senso (i soldati, l’onore, l’amicizia, le divise) con una messa in scena volutamente dilatata e distorta fino alle estreme conseguenze (l’infinito “triello” conclusivo, dominato da un gioco di mani, di sguardi e di silenzi, è trionfo del cinema e basta); contano solo i dollari, le alleanze tra i personaggi sono tutt’altro che disinteressate. Viscerale esempio di arte per l’arte, senza nessun significato nascosto che superi il puro piacere della visione; tra celebri sentenze (“Dormirò tranquillo perché so che il mio peggior nemico veglia su di me”) e sequenze di portata viscontiana (la guerra), i tre protagonisti sono indistruttibili supereroi western e ogni scena è soltanto mattonella di un percorso che li porterà, inevitabilmente, allo Scontro Finale. Adorato un po’ dappertutto con trasporto spesso superiore a quello di noi italiani, è cult specialmente in America dove ormai da anni campeggia nella top 10 IMDB sui più grandi film di tutti i tempi (attualmente è quinto, ma è stato anche al primo posto). Memorabile battuta finale.

Voto: 7,5

Trivia
(Sergio Leone non sapeva una parola d’inglese ed Eli Wallach non conosceva l’italiano; i due comunicavano in francese)
(Il cane che attraversa il cimitero all’inizio della scena finale fu un’idea di Sergio Leone per evitare che la sequenza cadesse nel melodrammatico, e una presenza inaspettata per Eli Wallach che non era stato avvertito. Il suo sguardo di sorpresa è perciò assolutamente autentico)
(Nessun dialogo nei primi 10 minuti e 30 secondi)


Una diligenza con sette passeggeri e due guidatori deve raggiungere la cittadina di Lordsburg nel New Mexico, rischiando di incappare nei pericolosi Apache che popolano il percorso.
Grande classico del western e del cinema classico americano, che aveva in John Ford un esponente di punta per la didattica semplicità delle storie e l’impeccabile pulizia della rappresentazione; eppure è straordinario, in un film così universalmente “facile” e leggibile, si sviluppi un’infinità di temi, dalla nascita del Mito della Frontiera alle riflessioni sul ruolo della donna (ce ne sono due, antitetiche: la prostituta e la moglie incinta) nel cinema e nell’America degli anni ’30, fino alla contrapposizione tra il sostrato culturale conservatore e razzista (il cattivo trattamento riservato dal film a indiani e messicani) e la morale progressista che sottolinea la rivincita, con fuga d’amore finale, del bandito gentiluomo e della puttana dal cuor d’oro. Le ristrettezze produttive e la difficoltà nel cambiare continuamente i fondali trasparenti portarono Ford a tollerare alcuni scavalcamenti di campo che è inusuale vedere con questa frequenza nel cinema americano anni ’30 e ’40.

Voto: 8

Trivia
(A chi gli domandava come mai, nella scena-clou del film, gli Apaches non fermassero la corsa della diligenza semplicemente tirando ai cavalli, John Ford rispondeva: “Perché questa sarebbe stata la fine del film”)
(La diligenza passa davanti alla Monument Valley per almeno tre volte)
(Primo film di John Ford con John Wayne, e primo suo western dopo 13 anni)
(La trama del film si ispira al racconto “Boule de suif” di Guy de Maupassant)

 


Oregon, vigilia di Natale 1885. Una spedizione capeggiata da un archeologo in cerca di fossili rimane bloccata nella neve.
Premessa: non siamo qui per sbertucciare ingenerosamente il cinema italiano indipendente; pure, non siamo qui neanche per glorificarlo acriticamente come dei Marco Giusti qualsiasi. Imbattendosi quasi per caso in questo “Inferno bianco”, proiettato gratis al Circolo degli Artisti (i romani annuiranno) all’interno di una rassegna di film nostrani low budget, non si può pretendere un giudizio compiuto che esuli dalle grandissime difficoltà incontrate dai realizzatori (solo 6 mila euro per girarlo, set impervio sul Gran Sasso e altre peripezie, come le camere che si spengono nel bel mezzo delle riprese per il troppo freddo). Dietro la recitazione accidentata, la sceneggiatura assurda, i dialoghi volutamente ridicoli (momento scult: la presunta canadese che urla “Je suis sola!”), c’è un amore genuino e fortissimo per il cinema, traboccante nella macedonia di citazioni che ricopre l’intero, bizzarrissimo, western-horror (persino “Shining”!), in un’atmosfera sospesa tra John Ford e Maccio Capatonda, tra Jarmusch e Corbucci. Fotografia ben curata, riferimenti storici precisi e documentati (Jacurti è luminare del western), improvvisazione a tutto spiano, atmosfera di divertito cazzeggio. Esiste già un “Inferno bianco” (“The Wild North”), film del 1952 di Andrew Marton, con Stewart Granger.

Voto: s.v.

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Gli ultimi mesi di vita del leggendario bandito Jesse N. James, ucciso il 3 aprile 1882 con un colpo di pistola alla nuca da Robert Ford, da sempre cresciuto nel suo mito.
“Quanta polvere su quel quadro”. Da qualche mese anche il western, come uno dei suoi numi Jesse James, ha trovato ufficialmente il proprio anno di morte, e questa volta non ci saranno resurrezioni miracolose. Il crepuscolare 2007 del cinema americano si sublima in questo magnifico film del neozelandese Andrew Dominik –appena al suo secondo film (il primo è “Chopper”, 2000), prodotto anche grazie ai dollari di Brad Pitt e Ridley Scott – in cui la rilettura del mito di Jesse James non ha nulla d’eroico; egli stesso è nient’affatto dipinto come l’ultimo dei romantici, ma si porta a spasso due grandi e disincantate occhiaie da consapevolezza della fine di un’epoca. Per raccontare il sentimento di amore-odio del codardo Robert Ford, centomillesimo esempio di vigliacco per troppo amore nella storia dell’Uomo, non si spreca una parola di troppo. Illuminato o incupito dalla fotografia di Roger Deakins, che passa dal colore al bianco/nero ad intervalli regolari, è – ancor più di “Dead Man” di Jarmusch, che prima d’ora deteneva la patente di becchino del genere – semplicemente un potentissimo requiem, dunque dolente e lugubre per definizione; un western popolato da fantasmi, ambientato in campi di grano lucenti ma spettrali, sottolineato dalle musiche di Nick Cave che si adattano umilmente all’understatement del testo, scegliendo di rimanere sotto traccia. Straordinario Casey Affleck; ma anche Brad Pitt, a quarant’anni suonati finalmente memore di come si fa, merita la citazione.

Voto: 8=

Trivia
(I prodigi della computer grafica hanno permesso di cancellare digitalmente la falange superiore del dito medio sinistro di Brad Pitt in ogni scena in cui questi compare)
(L’original cut del film durava circa quattro ore, ed è stato proiettato una volta durante lo scorso Festival di Venezia)