Category: Noir




In un paesino spettrale alla Simenon da qualche parte della Francia si incontrano e fanno amicizia Manesquier, professore di letteratura ciarliero e solitario, e Milan, misterioso fuorilegge con un qualche colpo in programma per il fine settimana.
“Mai conoscere le poesie a memoria”. Tra i più felici e apprezzati film del 55enne parigino Patrice Leconte, è un polar squisitamente francese nel dissociarsi dai cliché e uscire fuori dal seminato, perché – malgrado tutto – si chiude con una nota di speranza e fiducia, innanzitutto in sé stessi: non è mai troppo tardi. Film di persone e di solitudini che cresce e si fa amare a poco a poco, seguendo fedelmente il rapporto tra i due protagonisti, il magnifico Jean Rochefort e il cantante-attore Johnny Halliday, divo del rock francese qui alla migliore performance in carriera. Lieve e molto breve; lasciano il segno i dialoghi di Claude Klotz, che a volte amano specchiarsi nella bella scrittura (“L’eternità dura sempre fino al sabato”). Ma il finale, è così definitivo? A noi sembra aperto, spalancato.

Voto: 7+



Un gruppo di balordi progetta una rapina a una bisca durante un torneo di poker clandestino: il piano è farla franca facendo credere che la mente del piano sia stato Markie Trattman, un altro criminale, in questo caso del tutto ignaro, che già in passato si era cimentato con successo in un colpo del genere. La rapina riesce, ma subito dopo si mettono in moto i padroni del business, che ingaggiano il sicario Jackie Cogan per catturare e uccidere i responsabili e rimettere ordine nei loro affari.
Il neozelandese Andrew Dominik si era rivelato nel 2007 con l’eccellente e originalissimo western “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford”, e per il suo atteso ritorno alla regia dopo cinque anni si è affidato alla protezione dell’illustre amico Brad Pitt, qui produttore (con la sua società “Plan B”) oltre che interprete. “Cogan – Killing Them Softly” è, ça va sans dire, qualcosa di completamente diverso: i silenzi crepuscolari e l’atmosfera da requiem dell’opera precedente lasciano il posto a una bizzarra e spiazzante frenesia metropolitana, con personaggi sentenziosi, incongrue canzonette anni ’50 alla radio, improvvisi scoppi di violenza talvolta finanche gratuiti. Ispirato a “Cogan’s Trade”, romanzo noir di George V. Higgins datato addirittura 1974, Dominik si è occupato anche dell’adattamento ai giorni nostri: ha ricollocato la vicenda nell’autunno del 2008, in piena campagna elettorale USA, incollandoci le voci di McCain, Obama, Bush figlio a ricordarci ogni due per tre che siamo in tempo di crisi e a fare da sottofondo didascalico e un po’ petulante.
Dove finisce il film e dove iniziano i manierismi? Abituati (un po’ pigramente) da “Pulp Fiction” in poi a bollare qualsiasi tentativo di neo-noir con la sbrigativa etichetta di “postmoderno”, dovremo prima o poi imparare a sottrarci al gioco dei rimandi e delle citazioni. In questo caso Dominik ci dà una mano perché è abilissimo a fermarsi sempre un attimo prima che il suo gioco venga scoperto: facciamo qualche esempio. Brad Pitt e James Gandolfini danno vita in una camera d’albergo a uno dei dialoghi più crudi ed espliciti che si ricordino, che smarrisce battuta dopo battuta il suo tarantinismo per diventare, semplicemente, qualcosa d’unico. Lo stesso dicasi per la dialettica da abitacolo tra Cogan e il suo autista, surreale e graffiante il giusto senza mai diventare coeniana, o per l’invettiva finale che ricorda da sufficientemente lontano le secche morali di David Mamet. Lo spettatore consapevole resta irrimediabilmente spiazzato: siamo giunti a un livello 2.0 del citazionismo? Consapevoli che si tratta fondamentalmente di paranoie da cinefili, archiviamo in un battibaleno la questione e rendiamo i giusti meriti al 45enne Dominik, che non fallisce la prova del nove (ovvero, confermarsi dopo un sorprendente successo) e s’impone come un cineasta originale e versatile, che ha il rarissimo dono di essere imprevedibile: quando tutto congiura affinché la faccenda si risolva nella più classica delle carneficine di genere, ecco un insospettabile giro di vite proprio in extremis. L’idea del “gangster-movie ai tempi della crisi” è forse fin troppo labile e raffazzonata per camminare da sola sulle proprie gambe, ma a sorreggerla ci pensano una regia di personalità, una direzione degli attori pratica e funzionale e soprattutto un gruppo di grossi calibri davanti alla cinepresa, talmente tanti che quasi non ci si accorge che, tra loro, figura anche un grande come Sam Shepard.

Voto: 7



Un’affermata scrittrice e psichiatra si fa coinvolgere nelle imprese di un seduttivo truffatore, conosciuto a causa di un cliente. Come sempre, seguiranno complicazioni.
Elegantissimo esordio alla regia cinematografica di un maestro narratore come il 40enne chicagoan David Mamet che, oltre ad aver vinto il Pulitzer per la drammaturgia, all’epoca aveva già lavorato per il grande schermo come sceneggiatore di successo (“Il postino suona sempre due volte”, “Il verdetto” e il contemporaneo “Gli intoccabili”). Il classico meccanismo a incastri e scatole cinesi, secondo il quale una bugia è solamente ciò che c’è dentro una bugia più grande, serve anche a intavolare un discorso di inusuale profondità sul fascino che l’illecito e l’immorale esercitano sulle persone qualunque, come in certi film di Hitchcock o altri noir d’epoca in cui le torbide vicissitudini di un uomo comune facevano immediatamente scattare il meccanismo di immedesimazione dello spettatore. Tecnicamente, come in molti altri lavori di Mamet, è inoltre una summa dell’arte del racconto e della scrittura, sempre estremamente pulita, logica, consequenziale, a volte persino fin troppo accademica: basta come esempio la lunga e conturbante sequenza della partita a poker, pozzo senza fondo di false piste, specchietti per le allodole e altri trucchi da navigato magician. E’ il film più famoso dell’italo-americano Joe Mantegna, che nei primi anni ’90 ha anche lavorato con Woody Allen (“Alice”, “Celebrity”) e Coppola (“Il padrino parte III”). Anche una piccola parte per William H. Macy.

Voto: 7



Per sbarcare il lunario, un aspirante scrittore si fa assumere come croupier da un casinò di Londra e inizia a condurre, quasi inconsapevolmente, una doppia vita.
Il solido britannico Mike Hodges vanta una produzione cinematografica abbastanza schizofrenica, con punte come “Get Carter” con Michael Caine e molti altri lavori ben più mediocri. Questo “Croupier” (incomprensibilmente tradotto con “Il colpo” in Italia) galleggia tra le due categorie: neo-noir che gioca con tutti i luoghi comuni del genere e si avvita proprio sul più bello in una lunga serie di evitabili colpi di scena, è interessante soprattutto per il ruolo principale interpretato da Clive Owen, all’epoca praticamente sconosciuto. La sua prestazione – piuttosto marmorea – non è indimenticabile ma rende tutto sommato discretamente l’impenetrabilità del croupier, figura enigmatica per definizione che pochissimi film hanno omaggiato come meriterebbe. La verve della regia non è purtroppo supportata da una sceneggiatura all’altezza. In Italia uscì direttamente in DVD addirittura dieci anni dopo, sulla scia del successo di Owen in “Inside Man” di Spike Lee.

Voto: 5+



Un tennista di buon livello, alle prese con una complicata separazione matrimoniale, incontra in treno un ricco scapestrato che gli propone un piano diabolico: si offre di fargli fuori l’ex moglie se lui, in compenso, gli ucciderà l’odiato padre.
Tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Patricia Highsmith, grande classico firmato Alfred Hitchcock. Tra i suoi film più gotici ed espressionisti, non solo nello stile (nell’intera cinematografia del Maestro non si ricorda una scena più concitata e mozzafiato di quella finale sulla giostra) ma anche per una certa bizzarra combinazione di umorismo e grottesco che fa capolino anche nelle scene più drammatiche (l’incontro col bambino col palloncino al luna park è un frammento degno di Fritz Lang). Per il resto è un compendio hitchcockiano di figure e temi ricorrenti, dal topos del doppio alla presenza del treno, affrontati con ritmo serratissimo e dialoghi sopra le righe (per i quali vanno forse riconosciuti dei meriti a Raymond Chandler, il grande autore di gialli e polizieschi che collaborò alla sceneggiatura ma fu comunque silurato da Hitchcock a metà realizzazione). Il miglior film nonché l’ultimo di Robert Walker, eccellente villain atteso nel 1951, a soli 32 anni, a una morte per overdose su cui non fu mai fatta piena luce. Alla figlia Patricia Hitchcock spetta la parte della futura cognata impicciona. Il McGuffin di turno è un accendino smarrito dal tennista a inizio film, protagonista di un incalzante montaggio alternato verso la fine. Conosciuto anche come “Delitto per delitto”.

Voto: 7,5



In un casinò di Las Vegas gestito all’antica dal suo dispotico direttore, un “cooler” (mestiere che consiste nell’interrompere il flusso di energia positiva dei giocatori vincenti con la sola presenza al tavolo; in sintesi, un porta-sfiga) s’innamora di una bella cameriera e vorrebbe darci un taglio.
Secondo film del sudafricano Wayne Kramer, che ottenne un buon successo al Sundance Film Festival 2003 e arrivò a ottenere addirittura una nomination all’Oscar (per Alec Baldwin, attore non protagonista). Noir crepuscolare di piccolo cabotaggio in cui il Caso non è solo il motore, ma anche l’insolito punto di partenza, incentrata sulla bizzarra figura professionale che dà il titolo alla pellicola. Copione corretto (firmato da Kramer e da Frank Hannah), tutto virato sul nostalgico. Come nell’affine “Sydney” (Paul Thomas Anderson, 1996), le atmosfere contano più della trama. Fa strano vedere William H. Macy, il caratterista per eccellenza del cinema americano contemporaneo, in un ruolo da protagonista che lo vede un po’ fuori parte; se la cavano meglio i comprimari Maria Bello (due anni prima di essere scoperta da Cronenberg) e appunto Baldwin, meno bolso e più energico del solito.

Voto: 6

(Ha detto William H. Macy: “Quando abbiamo portato il film nei festival europei, tutti discutevano della sceneggiatura e dei personaggi. Quando l’abbiamo portato in America, tutti non facevano che parlare di quanto stava bene Maria Bello nelle sue scene di nudo”)



A Las Vegas John, spiantato a caccia di soldi per assicurare a sua madre una degna sepoltura, incontra per caso l’anziano e saggio Sydney, che senza un motivo apparente si offre di aiutarlo a raccogliere i soldi e a mantenersi col gioco.
Di frasi secondo cui Paul Thomas Anderson sarebbe “l’erede designato di Robert Altman” sono pieni i testi sacri della settima arte. In attesa che il tempo ci sveli se il paragone è calzante, rimane agli atti la clamorosa bravura di questo regista losangelino che a 29 anni (!) girava “Magnolia” e a 26 esordì con questo “Sydney” (titolo originale “Hard Eight”, che è un particolare punteggio nel gioco dei dadi), noir espressamente sotto le righe, senza facilitazioni né scorciatoie, che percorre quietamente la via del genere con filosofia rigorosamente deterministica e varie strizzatine d’occhio ad Altman medesimo ma anche ad altri suoi commilitoni, come il suo grande amico Quentin Tarantino che per il personaggio principale sembra avergli ceduto in prestito l’idea del signor Wolf di “Pulp Fiction”. Interessante soprattutto guardarlo a ritroso, alla luce dei luoghi ricorrenti dei suoi semi-capolavori “Boogie Nights”, “Magnolia” e “Il petroliere”: vi si ritrovano, oltre alla consueta abilità dietro la cinepresa, l’attenzione ai temi del senso di colpa e del passato che ritorna e attori fidati come Philip Baker Hall, John C. Reilly e (in una particina) Philip Seymour Hoffman. Film che procede a sbalzi, con brusche accelerazioni a interrompere un ritmo molto lento, che dà un senso d’incompiutezza e di preparazione a qualcosa di grande, come se incombesse un grande cartello con su scritto “lavori in corso”. Sui titoli di coda, Aimée Mann e Michael Penn cantano l’affascinante “Christmastime”.

Voto: 6



Florence e Julien, amanti, pianificano l’omicidio del ricco marito di lei (e capo di lui), inscenando un finto suicidio. Tutto va per il meglio, quando Julien, per lasciare l’edificio dopo il delitto, decide di prendere l’ascensore.
Da un romanzo di Noel Calef. Opera prima del francese Louis Malle, appena 25enne al momento della realizzazione. Film di culto e di importanza capitale nella storia del cinema francese, pioniere della Nouvelle Vague che esploderà di lì a pochi mesi. Al netto dell’ingenua vis trasgressiva e della naiveté da giovane ribelle (i personaggi ripresi di nuca, i soliloqui pomposamente melodrammatici di Florence), è un gran bel noir narrativamente e moralmente impeccabile, indiscutibile anche nel ruolo da protagonista lasciato al Caso. Getta molti semi che cresceranno bene negli anni seguenti, come quello della riflessione sul potere dell’immagine e sulla sua supremazia rispetto alla parola (laddove non arrivano gli interrogatori, riesce un pugno di fotografie). Musiche jazz di Miles Davis di cui Malle decide intelligentemente di non abusare, preferendo il silenzio nelle scene cruciali dal punto di vista dell’intreccio e scegliendole solo per i momenti più intimi e “caldi” (la camminata notturna di Jeanne Moreau per le strade di Parigi).

Voto: 7+