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AMOUR-locandina

Georges e Anne, coppia di borghesi ottuagenari, si amano e vivono in armonia. Ma un’operazione andata male peggiora la salute della donna, fino a ridurla in fin di vita.

Il 12° film di Michael Haneke – maestro e ideologo della glaciazione formale, emozionale e sentimentale – è una provocazione a partire dal titolo, dacché prima d’ora il suo unico racconto d’amore era quello deviato, perverso e disperato della Pianista Isabelle Huppert. E’ una provocazione mettere per tutto il tempo al centro della scena due anziani, seppur interpreti sopraffini come Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, e mostrarne senza filtri la quotidianità, i piccoli dolori, la consapevolezza di essere agli sgoccioli. Con queste premesse, è una provocazione fare un film molto fisico, di gesti e azioni più che di parole, con cadute, pianti, sputi, persino uno schiaffo (scena violentissima).
Ma “Amour” è anche una provocazione diversa, meno perfida e isterica di quelle che infliggeva allo spettatore nel prodigioso “Funny Games” o al tarlo che insinuava nel precedente “Il nastro bianco”. Considerato che per Haneke il male è innato e insopprimibile e siamo tutti destinati a soccombergli, per la prima volta in un suo film il protagonista non si arrende (o addirittura non cade nella sua seduzione), ma cerca di affrontarlo, di combatterlo con una dignità e una lucidità che non si erano mai apprezzate nei precedenti lavori del regista austriaco. Haneke scende dal piedistallo e si mette in pari con i suoi personaggi, verso i quali – finalmente! – c’è amore, e non solamente vivisezione. Film naturalmente molto triste, carico di pena e sofferenza, in cui però, diversamente che in passato, l’uomo acquisisce rispetto e dignità – con un gesto che probabilmente saprete già, ma che è opportuno non svelare in una recensione. La regia è come sempre rigorosa e precisissima e si esprime soprattutto attraverso piani-sequenza ampi, lenti e rilassati; nessuna colonna sonora. Palma d’Oro al Festival di Cannes 2012 e sorprendentemente atteso al ruolo di protagonista ai prossimi Oscar, dove ha ottenuto nomination prestigiose: film, regia, sceneggiatura, attrice protagonista (Emmanuelle Riva; la meritava anche Trintignant).

Voto: 7,5

interiors

La tranquillità e l’armonia di una ricca famiglia vanno in pezzi quando il padre annuncia di volersi separare dalla moglie. La donna cade in depressione e le tre figlie, tutte distanti per vari motivi, cercano invano di sostenerla.

Dopo sette opere contraddistinte da una fortissima componente comica, l’ottavo film scritto e diretto da Woody Allen è anche il suo primo puramente e orgogliosamente drammatico. Un anno dopo il grande successo di “Io e Annie”, la prima spiazzante svolta della carriera di Allan Stewart Königsberg avviene sulle orme del suo grande ispiratore Ingmar Bergman, cui sono presenti riferimenti espliciti nella recitazione, nelle luci, nei dialoghi, persino nella posizione degli attori sulla scena. Questo non fa comunque di “Interiors” un film-caricatura, tutt’altro: senza più gli argini della gag slapstick o della battuta sferzante, il pessimismo e la personalità di Allen straripano senza freno e più di una volta si è colti dal dubbio che si tratti soprattutto di un dolore di maniera, se non proprio di un’imitazione sia pure coltissima; ma tutta la seconda parte, feroce ma compostissima, crudele ma colma di pietas e dignità innanzitutto verso i suoi personaggi, senza mai cedere una volta alla tentazione del colpo basso, spazza via ogni sospetto. Certo non è un film facile, né consolatorio: sostiene a bassa voce che ogni dimostrazione di sentimento ha legato a sé anche un inevitabile effetto negativo, ma suggerisce anche che la repressione delle emozioni conduce invariabilmente all’infelicità. E’ un’opera spigolosa in cui i colpevoli non sono solo uomini, ma anche la natura matrigna, se non proprio cattiva: il mare e il silenzio, per la prima volta presenti in un film di Allen dopo anni di ambientazioni metropolitane, di allegro trambusto e di musica jazz, sono indissolubilmente legati al tragico finale e li accompagna – per come sono guardati, per come sono fotografati, per come sono vissuti dai protagonisti – il gusto amaro della lontananza e dell’ostilità. Attori magnifici; spiccano Geraldine Page e Maureen Stapleton, entrambe candidate all’Oscar.

Voto: 7,5

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Sparta, Mississippi: la polizia locale indaga sulla morte di un ricco industriale con l’aiuto di un ispettore di colore lì di passaggio, nonostante le diffidenze degli abitanti locali.

Unico attore nero che all’epoca avesse una certa rilevanza, Sidney Poitier fu spesso utilizzato negli anni ’60 per veicolare, grazie ai suoi modi gentili e al suo aspetto elegante, messaggi anti-razzisti di solenne buonismo: pensiamo a “Indovina chi viene a cena” e soprattutto a questo film, ambientato in quel Mississippi in cui, proprio in quel decennio, operarono i famigerati “Cavalieri Bianchi del Ku Klux Klan”. Rassicurante crime-movie dal successo superiore ai meriti, “La calda notte dell’Ispettore Tibbs” vinse cinque Oscar, tra cui quello al miglior attore (Rod Steiger) e al montaggio (di Hal Ashby, futuro regista di successo anni ’70). Intreccio di prevedibilità cristallina: all’inizio il poliziotto nero e il poliziotto bianco non vanno d’accordo, ma alla lunga l’arguzia, la competenza e l’umanità del primo riusciranno a fare breccia nell’animo del secondo. Classico esempio di cinema sociale un po’ di grana grossa, ma che è lentamente servito – più di tanti buoni esempi e di tanti bei discorsi – alla causa dell’integrazione e della convivenza civile; in fondo, chi dubita della funzione educativa dell’arte si sbaglia o è in malafede. Uno dei primi grandi successi dell’allora 41enne canadese Norman Jewison; la canzone “In the heat of the night”, che apre e chiude il film di cui è anche titolo originale, è cantata nientemeno che da Ray Charles.

Voto: 7=

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Reduce della Seconda Guerra Mondiale, disturbato psicologicamente e abbandonato dalla fidanzata, Freddie Quell (Joaquin Phoenix) incontra per caso su una nave Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), leader carismatico di un non meglio precisato movimento scientifico-religioso (la Causa), rimanendone perdutamente affascinato. Ma come entrare definitivamente nelle sue grazie? Come diventarne l’adepto più fedele?

Chi scrive è un andersoniano di ferro, uno che ha visto tutti i suoi film e ha adorato persino quel bislacco Punch-Drunk Love con Adam Sandler. Ma il ritorno al cinema di Paul Thomas Anderson, a cinque anni dal titanico Il petroliere, è macchiato da un discreto eccesso di megalomania. Più ambizioso che mai, come nel film precedente Anderson mette al centro della scena un uomo bigger than life, un profeta-guru-santone (a voi la definizione più calzante) la cui figura ricorda, ma solo da lontano, quella del discusso Ron Hubbard, fondatore del movimento di Scientology. È bene precisare che – nonostante i rumors iniziati ormai anni fa – “The Master” non è assolutamente un biopic su Hubbard e neanche una satira o un’inchiesta sulle fortune dei “dianetici”; è un film che cammina con le proprie gambe e aspira ad essere, senz’apparenti riferimenti a fatti o persone realmente esistiti, il ritratto di un burattinaio che gioca con gli esseri umani, manipolando e plagiando i più deboli e suscettibili con il miraggio di una vita migliore o semplicemente più serena. La metafora è chiarissima e il contesto spazio-temporale dell’America dei primi anni ’50 è facilmente adattabile ai giorni d’oggi, così come “Il petroliere”, ambientato sulla West Coast tra il XIX e il XX secolo, indagava del resto sui futuri guasti del capitalismo e sulle (attualissime) commistioni tra denaro e religione. Là dove il grande film con Daniel Day-Lewis coglieva perfettamente nel segno, purtroppo, questo rimane incompiuto, sfilacciato, inconcluso o forse inconcludente, seppur capace di sprazzi isolati di cinema purissimo (si veda tutta la lunga sequenza della “rieducazione” di Freddie, scandita da un montaggio alternato da manuale ed esaltata dalle magnifiche musiche di Jonny Greenwood). Si ha l’impressione, da un certo punto in avanti, che Anderson (anche sceneggiatore) smarrisca la difficile materia del suo narrare, delegando la costruzione del senso ai due straordinari protagonisti: un Philip Seymour Hoffman di mefistofelica grandezza e un Joaquin Phoenix di nuovo a livelli d’eccellenza, con un personaggio che per ottusità ricorda quello interpretato quasi vent’anni fa in Da morire di Gus Van Sant. Alla ricerca di una propria strada autonoma dopo gli illustrissimi paragoni che avevano travolto i suoi lavori precedenti (“Boogie Nights”-Scorsese, “Magnolia”-Altman, “Il petroliere”-Kubrick), Anderson sembra ispirarsi a un regista raffinato e complesso come Richard Brooks e a uno dei suoi lavori più famosi, “Il figlio di Giuda” (uno dei primi classici del cinema politico americano, con Burt Lancaster nel ruolo del protagonista), ma il suo è appunto un mero procedere per suggestioni e momenti cool, un gettare tanti sassi nello stagno senza mai andare a ripescarne nessuno: dalla sindrome post-conflitto (risolta sbrigativamente con una stereotipata sex addiction) all’ambigua relazione tra Freddie e il Maestro, carica di sottostrati psicanalitici che rimangono appena accennati. È un film che verrà prevedibilmente esaltato per la sua solennità e per la conoscenza enciclopedica della materia da parte di mastro Anderson, ma fidatevi di noi: sfortunatamente ci è toccato parlare del suo peggior film.

Voto: 6+

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Un poliziotto uccide per caso un clandestino alla frontiera tra Texas e Messico; intenzionato a rendere giustizia all’amico, il vecchio Pete rapisce il poliziotto obbligandolo a un’allucinante espiazione.
Davvero brillante l’esordio alla regia di Tommy Lee Jones, che a 59 anni sfodera la stessa personalità sempre messa in mostra davanti alla cinepresa. La strada del western contemporaneo, battuta negli ultimi anni con rinnovato successo, è ampiamente nelle corde dell’attore-regista texano, a suo agio con i passi dolenti e i silenzi imposti dal genere, come già dimostrato nell’affine capolavoro dei Coen “Non è un paese per vecchi”. Le cadenze da requiem imposte dalla regia, ispirata al nume tutelare Eastwood, contano più della sussiegosa sceneggiatura del messicano Guillermo Arriaga (lo scrittore prediletto da Inarritu, e non è un caso); Jones tenta con discreto successo di intavolare discorsi universali sull’etica e sul dovere morale, che vanno oltre il caso specifico (per il quale, si sa, è pur sempre prevista una Legge) e, drammaticamente fuori tempo, diventano lo spunto per un bizzarro e affascinante racconto di formazione al contrario, in cui è stavolta l’anziano ad andare incontro e far visita ai fantasmi (vedi l’incontro col cieco). Il giovane e stupido Mike Norton è solo uno strumento dal quale non ci si aspetta alcuna redensione che naturalmente non arriverà. Oltre a rivelarsi un signor regista, Tommy Lee Jones brilla anche da attore (con tanto di premio a Cannes) in un cast in cui si fa notare la bionda January Jones, non ancora famosa prima di diventare la Betty Draper del formidabile “Mad Men”.

Voto: 7

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Cosa succede quando il quindicenne Max Fischer, studente brillante e dal multiforme talento al prestigioso Rushmore College, si innamora di una professoressa vedova col doppio dei suoi anni?
Dopo l’esordio con “Un colpo da dilettanti” (1996), il film che rivelò il talento del 29enne Wes Anderson, atteso nel decennio successivo a una lunga serie di successi, da “I Tenenbaum” fino al recentissimo “Moonrise Kingdom”. Ogni opera prima (o seconda, come in questo caso) soffre di una certa ingenua sproporzione tra intenzioni e risultati e “Rushmore” non fa certo eccezione, contraddistinto com’è fino al midollo da tutti i marchi di fabbrica del regista texano: i suoi procedimenti per accumulo, la mania per le catalogazioni/elenchi di qualunque tipo (come quello iniziale di tutte le attività extra-scolastiche di Max), l’ironia malinconica e autunnale. Scritto con l’amico Owen Wilson; finché mantiene il suo carattere illustrativo – dedicandosi al disegno dei personaggi e dei luoghi con grande cura e ispirazione – il film funziona alla grande, salvo poi iniziare a zoppicare quando i centomila spunti narrativi, tutti degni di singolo interesse, devono per forza di cose mettersi in moto e diventare storia e romanzo di formazione. Bill Murray inaugura la sua galleria di personaggi andersoniani con un buffo ritratto di miliardario pigmalione e scapestrato, cui dà vita con il consueto sfoggio di impagabili micro-espressioni; ma brilla anche, nel ruolo del protagonista, il 18enne debuttante Jason Schwartzman, figlio di Talia Shire (“Adriana!!!!”). Colonna sonora di gran pregio con brani di Who, Rolling Stones, John Lennon, Cat Stevens.

Voto: 7-

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Dopo la morte accidentale della loro figlia, i coniugi Laura e John Baxter si trasferiscono per qualche settimana a Venezia per lavoro. Ma non riescono a ritrovare la tranquillità…
Oltre alla mitologica traduzione del titolo dall’inglese all’italiano (l’originale era il più discreto “Don’t look now”), sono vari i motivi che col tempo hanno fatto un piccolo cult di “A Venezia… un dicembre rosso shocking”. Innanzitutto la chiacchieratissima scena di sesso Sutherland-Julie Christie, che da più testimoni fu ritenuta molto poco cinematografica e ben più autentica; quindi il tono generale dell’opera, un thriller-horror inizialmente confuso e barocco e via via sempre più ansiogeno, fino all’agghiacciante finale che ispirerà le generazioni future; infine l’uso originale del montaggio e delle musiche antifrastiche realizzate dal veneziano Pino Donaggio, che da qui iniziò a costruirsi una solida fama di musicista thriller-horror, finendo per essere apprezzato da moltissimi cineasti di genere, primo fra tutti Brian De Palma. Da un racconto di Daphne du Maurier, clamoroso successo in Gran Bretagna e all’estero, è il film più famoso del londinese Nicolas Roeg; impressionarono all’epoca lo stile aggressivo e raffinato e l’indimenticabile ritratto di una Venezia cupa, lugubre e autunnale, in una specie di dépliant all’incontrario. La logica narrativa si espone a parecchie alzate di sopracciglio, ma col passare dei minuti lo spettatore impara a fare meno lo schizzinoso. Oltre al titolo di cui si è già detto, il pubblico italiano ha motivo di lagnarsi anche per un doppiaggio criminoso.

Voto: 7